Profumo di Provincia

 

Caro Douglas,

 

Sapere che torni in Italia tutti gli anni, per rivedere gli amici di questa città controversa, eppure bellissima, che è Napoli, è per me una certezza a cui non sono disposta a  rinunciare. Purtroppo però quest’anno devo annullare il nostro appuntamento agostano perché la mia mamma si è ammalata.

foto-13 (1)La tristezza di sapere che non ti rivedrò durante la stagione che già anticipa il suo spirito vacanziero, mi  riporta alla memoria, per contrasto e con una certa nostalgia, il nostro primo incontro. Ricordo, come se fosse ieri, che era un giorno di metà novembre del 1989, quando i colleghi mi informarono che sarebbe arrivato un giovane e brillante ricercatore dell’Orto Botanico di New York.

Approntai con loro un programma sommario per intrattenerti nel migliore dei modi, e fu subito evidente che avrei dovuto invitarti, a casa mia, insieme al resto del gruppo, almeno per una cena.

Il rito dell’ospitalità è un impegno e un piacere a cui nessuno di noi si è mai sottratto e non fece  eccezione accogliere te.

Quindi mi attivai presto per organizzare a casa mia un pranzo di benvenuto. La cucina non è mai stata una mia grande passione, come, negli anni, hai avuto modo di appurare, e perciò fu la scelta delle portate da mettere in tavola a mandarmi in crisi. Ero infatti combattuta tra i piatti tipici di montagna, che conoscevo e amavo da sempre e quelli che il luogo di mare, dove vivevo da tempo, mi suggeriva con una certa insistenza.

Napoli infatti è una città che può condizionare la vita nel bene e nel male, in molti suoi aspetti, e la cucina è sicuramente uno di essi. La parola pesce perciò si affacciò nella mia mente prima ancora che avessi ipotizzato il menù, ma, non potendo tradire la mia origine, subito dopo pensai tartufo, arrivando alla conclusione che l’una cosa non escludesse l’altra e visto che la stagione del pregiato tubero era iniziata da poco, fu facile procurarmi la quantità necessaria per preparare l’insalata tipica di Bagnoli. L’acquistai da un tartufaio che vendeva al dettaglio, poiché non era già più il tempo di mio padre, cavatore in pensione forzata per una pressione sanguigna altalenante e tremore essenziale alle mani. Il mio papà aveva già ceduto tutti i suoi cani ad altri cavatori, tenendone solo uno vecchissimo di nome Speranza, ormai membro della famiglia e con cui rimase fino alla sua morte, sopraggiunta alla veneranda età di diciassette anni.

La cucina mare e monti accontentò tutti e stupì piacevolmente te, che, finalmente, gustavi il tartufo Irpino di cui tanto avevi sentito parlare, anche se non tutti ne apprezzarono l’odore forte e pungente.

Nessuno tra i presenti poteva immaginare quanta parte della mia vita fosse stata impregnata da quell’odore, quanto mi fosse rimasto ancorato nella mente, e quanti episodi della mia fanciullezza e gioventù avesse caratterizzato, e ora, con enorme ritardo, qualcosa mi spinge a raccontarlo a te. Il mio papà, ormai ottantaquattrenne, è stato, come ti dicevo, uno dei  pochissimi cercatori del posto. Saranno stati tre o quattro al massimo, numero cresciuto poi in modo esponenziale; credo che oggi, in ogni famiglia del nostro comprensorio, ci sia almeno un cavatore dilettante. Per me – prima bambina e poi adolescente – vivere con cinque, sei cani da tartufo, era un fatto d’ordinaria amministrazione. I piccoli meticci erano i miei giocattoli viventi e, già dalle loro prime ore di vita, trascorrevo molto tempo a osservarli e coccolarli. Quando le cucciolate erano numerose, la madre non era in grado di allattarli tutti, così io e mia sorella li nutrivamo con il biberon.

Tardi, ma infine mi sono resa conto che quella era una precocissima prova di maternità.

Sfamarli era solo il primo degli impegni assunti, ne sarebbero seguiti molti altri, che spesso scatenavano tra noi ragazze delle controversie. Tutt’oggi non capisco perché fosse tanto difficile trovare un’intesa, discutevamo persino per dare il nome ai cagnolini. Passavamo da una proposta all’altra solo per il gusto di osteggiarci a vicenda e se arrivavamo a un accordo era solo per sfinimento. Una lotta per altro inutile, dato che papà spesso vanificava ogni nostro sforzo imponendoci di cambiarli. E, anche se allora a me sembrava una prepotenza, adesso so che la sua non era una sterile presa di posizione. Lui li avrebbe chiamati migliaia di volte: per controllarli, per impartire i comandi, per incitarli e dirigerli nella ricerca del tartufo, ed era indispensabile che ogni nome fosse facile da memorizzare e che avesse un suono appropriato.

Quando poi si trattava di istruirli, a noi toccava il semplice ruolo di spettatrici, quello di istruttore era esclusiva di papà. L’addestramento non avveniva prima che avessero compiuto quattro mesi  ed era la fase più interessante, divertente o addirittura comica di tutto il loro periodo di sviluppo. Tu, in quel nostro primo incontro, in una serata in giro per la città, sempre più interessato al tartufo, al modo in cui veniva cavato, mi chiedevi di illuminarti sul lavoro dei nostri meticci, ti raccontai, e mi piacerebbe credere che non lo hai dimenticato del tutto, e che riesci a ricordarne qualche passaggio, di come i cani annusavano il tartufo anche a parecchi centimetri di profondità e lo dissotterravano scavando, e che solo dopo abbaiavano per richiamare, l’attenzione del padrone. Speranza non attendeva l’arrivo di mio padre, depositava con delicatezza il tubero nelle sue mani, dopo averlo mantenuto con delicatezza tra i denti mentre lo raggiungeva. Non ce ne sono molti capaci di tanto, ma basta averne almeno uno per sveltire il lavoro, ed è proprio durante il periodo di ammaestramento che si capisce quale crescendo maturerà le qualità necessarie per diventare un buon animale da riporto.

Papà dava inizio alla delicata operazione d’addestramento lanciando un tartufo di piccole dimensioni a qualche metro di distanza da dove osservavamo quello che per noi era un vero spettacolo; il cucciolo di turno rincorreva la pallina nera cercando di recuperarla per mangiarla lì per lì.

Per noi, in quell’atmosfera quasi circense, era puro divertimento assistere a testate contro il muro per frenate tardive, rincorse anticipate, capriole e scivolate; la nostra attenzione, durante l’imperdibile esercitazione, era tutta concentrata sui cuccioli allattati artificialmente, ai quali, attraverso il latte, papà ci faceva credere di aver trasmesso parte del nostro stesso patrimonio genetico. La sua deduzione scaturiva dalla differente rapidità con cui i piccolini scovavano il tartufo, che noi stesse nascondevamo in posti sempre più faticosi da raggiungere, equiparabile, affermava con malcelata ironia papà, alla diversa agilità che noi bambine mostravamo nel fare fronte a qualunque incarico ci venisse assegnato.

La lezione si concludeva con grandi abbracci per l’allievo di turno per i successi raggiunti; il contatto fisico con i nostri cani cominciava prestissimo e non si esauriva pressoché mai.

Forse ricorderai tuttora che, nelle successive serate a casa di altri amici, con interesse crescente, mi chiedevi notizie sulla fascia climatica dove cresce il nostro tubero, e come fosse disciplinato il traffico dei cercatori in quei luoghi.

Ti raccontai che negli anni cinquanta – sessanta, questi erano pochissimi e, avendo a disposizione molto terreno, tutto filava liscio: ognuno di loro conosceva bene le abitudini degli altri e si regolava di conseguenza, cosicché, la divisione degli spazi, giorno dopo giorno, avveniva in modo quasi automatico. I problemi iniziarono con la corsa al mestiere di tartufaio, effetto della perenne carenza di occupazione, che affliggeva la nostra provincia A parecchi, giovani e non, sembrò l’unica soluzione possibile, pena l’emigrazione.

Con l’aumento del numero dei cavatori, si creò una sorta di ingorgo, tanto che si cominciò a puntare sulla tempistica: chi arrivava per primo s’impossessava della zona. Ne scaturirono quotidiane discussioni e qualche volta  veri e propri litigi, a cui sempre più spesso si associava una dura lotta tra cani, che per essere sedata  richiedeva l’intervento dei loro padroni. Credo però di non averti mai spiegato la qualità e il valore del  Tuber mesentericum. Secondo Carlo Vittadini, scopritore di diverse specie di tartufo, quello delle nostre montagne non è tra i più pregiati, lo stesso vale per il Tuber aestivum, chiamato scorzone, che si trova tra giugno e settembre nello stesso comprensorio, ma a un’altra  quota e considerato da molti  migliore perché di sapore più delicato e quasi privo di odore, mentre Vittadini colloca l’aestivum accanto al mesentericum.

Quella che per un bagnolese è una caratteristica essenziale, distintiva e imprescindibile – l’odore del nostro tubero – nella vendita rappresenta un ostacolo insormontabile per salire di qualche gradino la scala della qualità e di conseguenza di prezzo. È stato sempre così e, nonostante le oscillazioni di mercato fossero spesso favorevoli al Tuber mesentericum, nessuno è riuscito ad arricchirsi facendo il cavatore, infatti è piuttosto una seconda attività, ma alla mia famiglia ha portato benefici che hanno fatto la differenza.

Mio padre di mestiere faceva l’operaio forestale, un impiego che s’incastrava bene con la sua passione per i tartufi: lavorava con la Comunità Montana per cento giorni l’anno, tutti concentrati tra la primavera inoltrata e gli inizi d’ottobre, per il resto del tempo era a tutti gli effetti solo un cercatore di tartufo. La sua paga da operaio era magra, mentre solo con l’introito dei tartufi venduti si andava avanti con dignità.

Provò anche a cambiare lavoro e nazione dove esercitarlo, per non farci mancare nulla; noi donne, perciò, nel lontano 1966, per circa dodici mesi, patimmo la sua lontananza da casa, quando, partito per la Svizzera, sperimentò la sua prima e unica avventura da emigrante. Questo fatto, però, non condusse al successivo trasferimento di tutta la nostra famiglia in quella regione, come avveniva per molti nuclei familiari, bensì al ritorno definitivo di mio padre: egli  aveva deciso che era preferibile, a parità di impegno lavorativo, tornare nella nostra cittadina e cercare di cogliere appieno tutte le opportunità che la natura del luogo offriva. Una scelta che condizionò nel bene e nel male tutti i nostri destini.

Erano questi gli anni del miracolo economico.

Le realtà rurali si spopolavano per il fenomeno dell’urbanizzazione, tra gli anni ‘50 e ‘70 più di dieci milioni di connazionali furono coinvolti in esodi interregionali e in parte verso altre nazioni. Il passaggio da un’economia agricola a una industriale, portò a spostamenti di massa verso le periferie urbane dove sorgevano le industrie; il flusso andava dal sud verso le città del nord, lasciando la parte bassa dello stivale intrappolata in una questione meridionale ormai incancrenita.

L’inurbamento ci vide protagonisti solo in minima parte, merito soprattutto delle nostre risorse territoriali, come appunto il tartufo e anche la castagna.

L’allora giovane e innovatorre sindaco del mio Comune lottizzò una zona appena fuori il centro del paese e distribuì gratuitamente, a chi ne faceva richiesta, appezzamenti per fabbricare nuove case, con l’unico impegno di iniziare a edificare entro un anno.

Questo richiamò dall’estero molti nostri emigranti che, dopo avere costruito casa, nell’arco di pochi anni ritornarono definitivamente in paese.

In quell’epoca di grandi trasformazioni, noi sorelle eravamo diventate giovani donne, ambedue studentesse liceali, attente a cogliere i venti del mutamento che interessavano buona parte dell’occidente.

Tutto era partito dalla tua America, per giungere poi in Europa, prima in Francia e poi in Italia: eravamo in pieno Sessantotto. Ciò che accadeva nel mondo e la sua colonna sonora, ci giungevano attraverso la tv, una delle più significative espressioni del boom economico. La percezione che i venti del cambiamento soffiassero anche da noi divenne palese con quasi un anno di ritardo, ma ci trovò pronte a vivere tutte le esperienze che il momento richiedeva. In quegli anni, tra studio, letture, musica e contestazioni, il nostro impegno familiare con il tartufo e i cani continuava, e per noi ragazze era arrivato il momento della solidarietà, dei grandi sogni e dei mille progetti. Frequentavamo con assiduità l’ottima biblioteca comunale e sceglievamo cosa leggere quasi a caso, a volte affascinate solo dal titolo: nonostante questo, leggemmo molti classici italiani e stranieri.  A quel tempo, Fernanda Pivano, ambasciatrice di molti scrittori americani, importava, traduceva e promuoveva le loro opere. Lo aveva già fatto con l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, continuò con gli scrittori della Beat Generation: conoscemmo così Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti.

A noi sorelle più che una rivelazione, l’America sembrò una promessa di vita, da condividere con i nostri coetanei. Infatti, una girandola di amici, interlocutori ideali per ogni sorta di scambio culturale, e struggenti innamoramenti giovanili, rendevano le nostre giornate  frenetiche. A detta dei vicini, la nostra casa ricordava quella delle vecchie ostetriche, per il continuo andirivieni di giovani, che pareva avessero sempre un messaggio di vita o di morte da dover trasmettere.

I nostri compiti familiari, nel frattempo, erano cambiati, si erano evoluti, ormai toccava a noi portare il cavato di uno o più giorni, a una signora o a un signore, di una certa età, che lo spedivano poi alle industrie cui facevano capo. La scelta di darli a uno invece che all’altra, dipendeva dal prezzo che imponevano, che si diversificava spesso solo di qualche decina di lire al chilo.

Personalmente preferivo la donna che, oltre a offrirci qualche leccornia, ci regalava tutte le volte cento lire a testa, una attestazione gratificante del nostro impegno e che a fine settimana ci permetteva di contare su un piccolo gruzzoletto.

Entrambi i raccoglitori abitavano dall’altra parte del paese, a poche decine di metri l’uno dall’altra. Io è mia sorella, con il nostro carico prezioso, li raggiungevamo a piedi, attraversando la piazza principale del paese, sempre affollata. Questo ci turbava non poco, perché pareva che tutti ci osservassero: una sensazione che ci accompagnò per l’intero periodo in cui espletammo questo compito rendendocelo molto più gravoso di quanto già fosse.

Gli inverni di trenta – quarant’anni fa erano piuttosto rigidi e non penso che questo sia un inganno della mente come qualche esperto si sforza di farmi credere ogni volta che si tocca l’argomento. La neve ammantava le cime già a novembre, per continuare con brevi interruzioni fino a marzo e, salvo bufere, mio padre le saliva con i cani per cavare qualche tartufo. Se il tempo peggiorava, tutta la famiglia andava in crisi, tanto che noi ragazze ci inoltravamo nell’ultimo tratto di strada che portava al limite del paese, aspettando di vederlo apparire in lontananza, nella convinzione di propiziarne il rientro, o forse era solo un modo per sopportare meglio l’estenuante attesa.

In uno di quei giorni, che mi è rimasto impresso come un marchio a fuoco, i fiocchi avevano spruzzato di bianco solo i rilievi più alti e pareva non dovessero scendere anche a valle.

Quando lui tornò era pomeriggio inoltrato, ma non sembrava per nulla infreddolito, né particolarmente affaticato; gli andai incontro per dargli una mano, mentre i cani, come sempre, mi saltavano intorno, rischiando di farmi cadere.

Il bagagliaio della vecchia automobile era pieno di strambi recipienti e involucri; io ne afferrai uno, un pesantissimo fazzoletto- bandana, che a fatica portai in casa. Poi, soccorsa dagli altri familiari, fu la volta dello zaino, della giacca con la cacciatora rigonfia, di un maglione che aveva le maniche legate a mo’ di sacca per trattenerne il contenuto, e di altri fagotti improvvisati: stracolmi del profumatissimo tubero.

Recuperammo vari  imballaggi e  li pesammo: erano circa diciotto chili di tartufo.

La sera stessa, in due tornate, portammo il cavato alla signora che lo raccoglieva. La traversata doppia della piazza, con il carico di tubero, ci rimandò tutto raddoppiato: sia il tormento di essere osservate, che la ricompensa in denaro.

Ti raccontai, anche, che i nostri meticci d’inverno dimoravano al piano terra della nostra abitazione, che purtroppo non aveva giardino. D’estate li trasferivamo in località Marotta, subito fuori l’abitato, in una casa di campagna semi-diroccata e senza tetto. Nell’angolo nord del rudere, papà aveva costruito una confortevole cuccia di robuste assi di legno e tutt’attorno si apriva un ampio cortile, in cui era cresciuta, appena decentrata, un’acacia gigantesca, spontanea, che proiettava un’ombra provvidenziale. In quella stagione salivano in montagna solo occasionalmente, per il resto dei mesi godevano del meritato riposo.

In quel periodo eravamo noi ragazze, libere da impegni scolastici, a portare loro da mangiare. Lo facevamo una volta al  giorno, più spesso la mattina, prima che il sole fosse alto. La strada per la Marotta era in buona parte sterrata, eccetto un piccolo tratto erboso, che percorrevamo di corsa e cantando a squarciagola per spaventare e mettere in fuga i serpenti che immaginavamo nascosti tra quell’erba. Superata la zona critica, e ormai rilassate, sghignazzavamo per le stralunate canzoni inventate al momento, urlate con voci stridule, alterate dalla paura.

A distanza di anni mi rendo conto di come sia stato un vero privilegio avere vissuto l’infanzia e parte della gioventù a così a stretto contatto con una natura fatta di altipiani spettacolari come sospesi nel cielo. Tuttavia, raggiunta la maggiore età, scelte più o meno obbligate mi portarono lontana, e spostai l’entusiasmo per le mie montagne verso nuove mete.

Ho sempre creduto che ogni luogo possedesse una promessa intrinseca di vasti orizzonti da scoprire, di numerose opportunità da prendere al volo. Capivo però, nei momenti critici della mia esistenza, che attraverso i sogni tornavo a rifugiarmi tra le mie alture. Interpretavo la visione onirica ricorrente, che dall’allontanamento dal paese, agitava molte mie notti, come una necessità istintiva di riappropriarmi delle mie radici. Sognavo infatti una gran nevicata che ricopriva un paesaggio a me ignoto, ne identificavo soltanto il cielo basso e i suoni ovattati, che mi infondevano una profonda calma interiore.

Non conoscevo ancora Jung, e le mie capacità introspettive erano grossolane, eppure intuivo che l’inconscio mi inviava un messaggio forte, non difficile da decifrare.  Pertanto, ancora oggi, quando tutto sembra andare alla deriva penso: alla fine nevicherà!

Percepire l’arrivo della neve con tutti i sensi è un’attitudine che ci accomuna: tu mi raccontavi di averla scoperta prestissimo, nel primo gelido inverno Newyorkese dopo il tuo trasferimento dalla California.

È sorprendente come siano radicate in noi, sensazioni, suoni, colori e odori che hanno contraddistinto la nostra infanzia. E ho potuto appurare che situazioni, fatti e luoghi di una età remota, possono essere riportati alla coscienza grazie a un odore della memoria. Quello del Tuber mesentericum, ha impregnato il cammino della vita di ogni componente della mia e di molte altre famiglie di questo borgo, e promette di farlo per tanto ancora.

Mi piacerebbe se, dopo tanto tempo, potessi riabbracciarti proprio nella stagione del tartufo, per poter celebrare la nostra lunga amicizia con un’insalata speciale…

Un abbraccio

Rosaria