Luciano Luciani recensisce “Solo una storia privata”
Nel leggere “Solo una storia privata”, romanzo di Rosaria Patrone, Marco Del Bucchia Editore, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a uno dei quadri di Lucio Fontana dal titolo “Concetto spaziale. Attese”. I tagli nella tela dell’artista rappresentano una linea di demarcazione dello spazio e del tempo: la fenditura verticale, netta, in mezzo al quadro (o più tagli), è un modo per il pittore di dargli tridimensionalità, per passare dal piano e la staticità della tela a uno sbocco che permette di guardare oltre. È così che fa anche Silvia, la protagonista del romanzo: a un certo punto della sua vita, per alcuni accadimenti che si sono verificati, decide di dare un taglio netto con il passato per andare oltre quei fatti e ricominciare da zero.
Il romanzo racconta di una ragazza piena di sogni e di speranze, che lascia il paese di montagna, in cui è nata e vissuta fino ad allora, per intraprendere gli studi universitari. Resterà a Napoli anche dopo aver conseguito la laurea, perché ha conosciuto Andrea, docente universitario, con il quale convivrà per oltre 20 anni, fino a quando una giovane studentessa di nome Monica, irromperà nelle loro vite, per prendere il suo posto accanto ad Andrea.
Dopo qualche mese dalla dolorosa rottura con il compagno, Silvia rimane coinvolta in un agguato di camorra, rischiando di perdere la vita.
Questi due eventi sono un duro colpo: il doppio tradimento, quello di Andrea con la giovane donna, e quello di Napoli, sua città di adozione, con la sparatoria che l’ha coinvolta, lasciano in lei un segno intangibile, creano un punto di rottura tra il prima e il dopo, tra ciò che è finito per sempre e quello che dovrà essere ricostruito ripartendo da zero.
Per far si che questo si avveri la donna deve andare via da Napoli; e quale altro luogo è più idoneo del suo paese natio, per poter ripartire e ricostruire il suo equilibrio?
Lei infatti ha bisogno di un altro tempo e un altro spazio per poter ricominciare, deve tracciare una distanza geografica e temporale da quanto è accaduto.
Intanto, lì al borgo, la distanza minima (spazio-tempo) da Napoli la riporta con facilità ai ricordi della sua vita passata e, tra le pareti della casa paterna, analizza, fa un bilancio del suo vissuto.
In quel luogo di montagna il tempo scorre lento, tutto è sempre uguale, e Silvia rimane spesso ostaggio di un senso di staticità. Pian piano, però, avverte la necessità di interagire con quello che la circonda, per smuovere il tempo immobile del paese e, come aveva fatto Fontana con le sue tele, dà un taglio alla piattezza monocromatica che è diventata la sua vita, per poter andare oltre la staticità del tempo e del luogo, per tentare di rinascere. Quindi riprende a tornare sempre più spesso a Napoli per riconquistare l’intimità con la gente, i luoghi e le atmosfere che bruscamente aveva interrotto. Silvia infatti sa che non può sfuggire al suo passato, sa che deve accettarlo, solo così potrà tornare a percorrere con serenità strade e piazze della città che ha lasciato, solo così il tempo può riprendere a scorrere, e la rinascita può iniziare il suo percorso obbligato tra ciò che è andato, il suo desolato presente e la speranza del futuro.