Recensione “Il gene maledetto” di Gabriele Ottaviani
di Gabriele Ottaviani
Il terremoto di qualche decennio prima aveva imposto regole di riedificazione rigorose: gli edifici non potevano avere più di due piani, e questo, in fabbricati come quello in cui ero andato ad abitare, consentiva di avere pochi condomini. Io ne avevo solo uno: Maria Volino, cosi era scritto sul citofono, una tizia che si muoveva come un autoblindo, spostava mobili con la frequenza delle esposizioni nelle mostre mercato. Non avrei però potuto giurare che a produrre tutto quel fracasso fosse davvero lei o qualche spirito indomito che fluttuava nel suo appartamento. Quando, a tre o quattro giorni dal mio arrivo nel palazzo, suonò alla mia porta, mi trovai di fronte una ragazza sui ventisette anni, bruna, dagli occhi di un grigioverde indeciso e alta quanto me, fasciata in una tuta attillata verde scuro, che metteva in evidenza una muscolatura tonica.
Reggeva un vassoio di terracotta, con sei vasetti di piantine grasse assortite. «Ciao, sono l’inquilina del piano di sopra, sono venuta a darti il mio benvenuto» esordì mentre mi porgeva le piante. «Maria, se non sbaglio? Prego accomodati» la invitai facendo strada. Lei allargò a tutto il volto il suo timido, delizioso sorriso e riprese un po’ imbarazzata: «Sono qua anche per scusarmi del trambusto… Sai, sto cercando la collocazione perfetta per il cassettone che mi ha lasciato in eredità una mia prozia. È molto antico e accostarlo a quelli moderni è un’impresa!» Parlava e si guardava intorno studiando il mio bilocale con l’occhio lungo da agente immobiliare: sembrava non sfuggirle nulla, un atteggiamento in cui la mia infaticabile e, lo ammetto, spesso esasperata fantasia rintracciò la possibilità che stesse davvero facendo un sopralluogo…
Il gene maledetto, Rosaria Patrone, Intrecci. Rosaria Patrone, dottoressa in scienze biologiche, ha esordito tre anni fa nella narrativa con il romanzo Solo una storia privata: ora racconta, con tenerezza, passione e intensità, con empatia e senza retorica, amalgamando sapientemente – dando così luogo a una raffinata costruzione testuale – tutti i temi fondamentali dell’esistenza, e in primo luogo la ricerca d’un amore che ci desideri per come siamo, la storia in primo luogo di diversi giovani, di Antonio, che si fa chiamare Teresa, di Amin, studente di medicina arrivato dall’Uganda in Italia che viene assunto nella ditta di costruzioni del padre di Lorenzo, e soprattutto proprio di quest’ultimo, affetto da fibrosi cistica, malattia autosomica recessiva che colpisce un individuo su duemilacinquecento circa e che è presente dalla nascita in quanto dovuta a un gene mutato, che normalmente determina la sintesi di una proteina chiamata CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Conductance Regulator), deputata al regolare funzionamento delle secrezioni di molti organi (che in questo caso invece, addensandosi, diventano una gromma letale), ereditato sia dal padre che dalla madre, quasi sempre senza saperlo portatori sani di una copia di tale gene, com’è in Italia pressappoco il quattro per cento della popolazione. Da leggere, rileggere, far leggere.