Ti cucino un racconto

 

L’insalata della memoria

 

«Ehi piccola, sali su, che la mamma ti sta aspettando per preparare l’insalata di tartufo insieme a te.»

La voce del mio papà, a differenza della sua immagine sempre più offuscata, mi arriva nitida, dopo aver attraversato indenne quel meandro nebbioso ubicato da qualche parte del mio cervello, che ancora custodisce i ricordi di me bambina.

«Ha cominciato senza di me?» gli chiedevo mentre raccattavo sul largo scalino davanti casa il mio bambolotto di gomma che, dopo un accidentale tonfo nel camino di casa, mostrava una vistosa scottatura a un piede.

Avevo deciso di lasciarla a vista solo quando, dopo averla medicata più e più giorni, avevo constatato che non si rimarginava.

E, immaginando che mia sorella, più grande di me di tre anni, fosse già seduta al tavolo della cucina, afferravo il sacchetto dove avevo riposto in fretta il bambolotto, la sua culletta e una copertina, e scappavo su per le scale, salutando con un gesto distratto della mano mio padre che stava uscendo.

La preparo ancora, l’insalata di tartufo nero, seguendo la ricetta di famiglia, che è poi, con qualche piccola variazione, la stessa in tutta la zona, ricca del famoso tubero.

Non succede spesso, però, che mi cimenti in questa che può sembrare una ricetta come tante altre: lo faccio a Natale, talvolta a Pasqua e in qualche altra rara occasione, e sempre i ricordi fluiscono incontrollati, mentre maneggio con cura la materia prima, che ha segnato il cammino dalla mia infanzia alla giovinezza.

A quel tempo, l’odore del tartufo impregnava ogni ambiente della mia casa e credo anche che tutta la famiglia lo portasse addosso, come una seconda pelle.

Il cavatore di casa era mio padre, che aveva cominciato per hobby, trasformandolo poi in un lavoro stagionale. Aveva ereditato quella passione da suo padre, per il quale però era rimasta solo un passatempo.

Il mio papà era operaio forestale e lavorava per la Comunità Montana cento giorni l’anno, tutti concentrati tra primavera ed estate. Agli inizi di ottobre, fino alla primavera successiva, diventava a tutti gli effetti un cercatore di tartufi.

Seduta tra mia madre e mia sorella, che mi sorvegliavano con occhi di falco, sbucciavo con un coltellino qualche tubero più liscio, che avevano selezionato per me.

«Con la scorza stai portando via mezzo tartufo.» mi sgridava mia sorella. Poi, rivolta a nostra madre, le chiedeva stizzita: «Mamma, non vedi cosa sta combinando?»

Lei le lanciava un’occhiata di sbieco, ma mia sorella imperterrita infieriva: «Così non ci aiuta. Come farai, dopo, a tagliarlo a fettine sottilissime, se è tutto sfrantumato?»

 «Lascia stare, me la vedo io.» le rispondeva calma la mamma, senza alzare lo sguardo.

Io me la ridevo sotto i baffi, perché sapevo che non erano ammesse repliche; con lei c’era poco da scherzare, quando ti diceva qualcosa, bisognava ascoltare e comportarsi di conseguenza!

Mia sorella ha conservato nel tempo il suo caratterino e, benché le volessi un bene dell’anima, mal sopportavo la sua pedanteria, dettata forse anche da una sottile gelosia per la bambina solare che ero, e per la parlantina sciolta che mi consentiva di trovarmi spesso al centro dell’attenzione. Quel suo modo di porsi finiva anche per marcare la differenza sostanziale tra noi sorelle, facendo emergere per contrasto il suo carattere chiuso, scontroso e a volte cupo.

Allineate davanti al lungo tavolo di legno di castagno, che aveva visto tempi migliori e che ha continuato a invecchiare con la dignità di chi è stato testimone di generazioni passate, eseguivamo sotto l’occhio vigile di mamma alcuni passaggi di quella preparazione.

Ogni volta che mi trovavo seduta lì, in posizione quasi sempre centrale, per essere tenuta d’occhio da ogni lato, mi lasciavo attrarre dai ghirigori che solchi più o meno evidenti disegnavano sul vecchio legno. Vere e proprie ferite, dalle quali la mia fervida immaginazione di bambina si aspettava di veder spuntare, come linfa, qualche goccia di sangue, a testimoniare che quel legno era vivo e conservava memoria della sua centenaria esistenza. Una fantasia che mi sono spiegata solo molto più tardi.

Da quei tagli potevo anche ricavare informazioni sul mio albero genealogico. Sapevo infatti che erano stati incisi da chi ci aveva preceduti, la famiglia dei miei bisnonni in primis. E sospettavo che mio nonno insieme al fratello, emigrato da molti anni in America, lo avesse usato anche a mo’ di tagliere. Poi, per altrettanti anni, aveva dimorato nella cucina dei nonni, nell’altra ala della nostra casa. Ero spesso tentata di dare il mio contributo artistico, incidendo qualcosa, ma sapevo che non era affatto facile usare il coltello sul legno, e poi ero strettamente sorvegliata. Intanto mi divertivo molto nel cercare di attribuire quella sorta di geroglifici, a seconda della forma e profondità, agli uni o agli altri, finendo con l’addebitarne la maggior parte ai bisnonni e allo zio, che non avevo mai conosciuto. Quando poi i miei nonni avevano dovuto ridimensionare lo spazio del loro appartamento, perché potessimo ingrandire il nostro, avevano anche dovuto cederci il tavolo, che non entrava più nella cucina.

I miei genitori non mi leggevano né mi narravano storie.  Non lo facevano neppure la sera, prima che mi addormentassi.

Lavoravano sodo, mamma e papà, e a fine giornata erano così stanchi che credo facessero fatica a restare svegli dopo averci mandato a letto.

La mia fantasia, prima di imparare a leggere, era perciò nutrita dai racconti degli adulti del vicinato, che si riunivano nelle lunghe sere invernali a casa dell’uno o dell’altro, prediligendo a volte chi di loro possedeva un televisore. Alcuni seguivano le puntate della “Freccia Nera” o “Il Segno del Comando”, senza mai perderne una. Il bianco e nero conferiva alle scene un fascino così misterioso da accendere la mia immaginazione di bambina, che mi portava spesso a identificarmi con il personaggio femminile più seducente.

Non ci perdevamo neppure il “Festival di Sanremo”, che riuniva la gran parte del vicinato. Io, la piccola di casa, seduta sulle ginocchia dei miei o di qualche altro ospite che, dopo un po’, alleggeriva mamma o papà del mio peso, lo seguivo quasi tutto e al tempo stesso ero attentissima alle chiacchiere degli adulti. Quelle braccia calde e accoglienti, e il rassicurante senso di appartenenza a una piccola e non convenzionale comunità, non li ho più ritrovati. Il bello di quelle serate, per me, non risiedeva soltanto nelle canzoni, nei fiori sul palcoscenico, nei vestiti spettacolari delle cantanti o nella presenza straordinaria di grandi ospiti internazionali, ma soprattutto in quella platea di un anomalo condominio: uomini e donne che condividevano ogni cosa, buona o cattiva che fosse. Partecipavano, attenti e caritatevoli, alle gioie come alle avversità che occasionalmente capitavano a qualcuno, tant’è che anche nelle peggiori sventure non ci sentivamo soli, abbandonati al nostro destino.

Per l’ultima serata del festival, mia madre, con il nostro piccolo contributo, preparava la sua insalata in formato gigante da mangiare tutti insieme, mentre scommettevamo su chi avrebbe vinto.

Più spesso ci ritrovavamo dopo cena dallo “zio Arturo”, il vecchietto che tutti, grandi e piccini, chiamavamo semplicemente zio: era vedovo da molti anni e abitava con la figlia. Bastava attraversare pochi metri di cortile per essere sulle sue scale; una gran comodità per i miei, che il più delle volte mi riportavano a casa addormentata.

Restavo ben sveglia, invece, ad ascoltare il racconto che zio Arturo faceva sulla guerra che aveva combattuto oltralpe. Anni dopo, studiando la Storia, ho capito che raccontava della fame e del freddo patiti da lui e dagli altri commilitoni nella ex Jugoslavia, durante la seconda guerra mondiale, quando era entrato a far parte della Resistenza di quella nazione. Erano le pallottole di battaglie combattute in quella terra che gli avevano ronzato a pochi centimetri dalla testa. A nostro beneficio, ne imitava il fischio acuto, modulava il suono in avvicinamento, mentre la sua mano seguiva una immaginaria traiettoria, che finiva sempre per sfiorarlo. Descriveva, poi, con dovizia di particolari quella terra, che mi procurava un senso di smarrimento ma che mi rapiva per il fascino potente che sempre ammanta ogni luogo sconosciuto.

Quei paesaggi innevati durante il lungo inverno da soldato, io li immaginavo molto simili al nostro.

Ed anche se poi mi sono allontanata per molti anni dai miei luoghi, non ho mai smesso di amare in modo viscerale le sue stagioni fredde, l’antico odore di legna bruciata mista a quello più penetrante del tuber mesentericum e le nostre immense faggete ammantate di bianco, dove si cava il tartufo.

I castagneti in basso, all’altezza del paese o in altura, tra collina e montagna, rappresentano insieme al tartufo la ricchezza, ma anche la suggestiva bellezza, del mio territorio.

Quando raccontava la “sua” guerra, riviveva la paura che non lo aveva mai abbandonato e a cui, nel tempo, non era riuscito ad assuefarsi.

Dalle poche immagini viste in TV, sapevo che la guerra era orrore e distruzione e che il sangue versato significava quasi sempre morte.

Eppure, quando immaginavo che il tavolo della nostra cucina sanguinasse, quando tamponavo il vischioso liquido rosso dalle mie ginocchia brucianti -dopo una caduta, credevo che tutto quello simboleggiasse invece la vita. Un ottimismo irriducibile, che ancora mi porto dentro e che meglio mi fa sopportare le contrarietà della vita.

Quando tutti i tartufi erano stati sbucciati, si passava alla seconda fase: l’affettatura.

Inorridisco quando sento che qualcuno lava il tartufo, per non sprecarne neppure un grammo.

Pur ammettendo che la scorza è dura, di sapore terroso, e che scricchiola fastidiosamente sotto i denti, tutto questo non rappresenta un vero problema.

Chi compie questa operazione scellerata (senza alcun pudore, come ribadirebbe mia mamma), per recuperare tempo e qualche grammo di tartufo, trascura il fatto che il delicato equilibrio organolettico del piatto viene compromesso.

«Spazzolarli energicamente sotto l’acqua, rischiando di spappolarne qualcuno più maturo, non garantisce che vengano via tutti i granelli di terriccio. Quelli incuneati tra microscopiche fessure si eliminano solo con il coltello.» ci disse la mamma quando, dopo aver visto una nostra vicina lavare i tartufi, le proponemmo di farlo anche noi.

A casa nostra era soprattutto lei a occuparsi di tagliarli a fettine sottilissime, una volta mondati: lo faceva a mano, con delicatezza e a velocità costante, e le fettine come per magia saltellavano nella zuppiera, tutte dello stesso spessore.

A soli cinquant’anni scoprì una iniziale artrosi deformante degli arti. Le mani furono sempre meno precise e rapide e, siccome si ostinava a fare tutto da sola, le regalammo un affettatartufo di acciaio. Lei lo guardò appena, per poi chiuderlo in un cassetto.

Quando ci ritrovammo tutti insieme, il Natale successivo e, come sempre, in tavola faceva bella mostra l’insalata della tradizione, le chiedemmo se lo avesse usato.

«No, ma lo tengo da parte per voi. Con quell’arnese sarà più facile tagliare le fettine tutte uguali.» ci rispose, senza fare una piega.

Sì, era vero, non avevamo mai imparato ad affettare come faceva lei, e in quel momento ci stava dicendo, in modo non proprio velato, che sapeva che non lo avremmo fatto più.

Il tubero nero si cava sulle nostre montagne. Bisogna conoscere le zone in cui nasce ed avere dei cani addestrati, capaci di annusarlo a una profondità di circa venti – trenta centimetri, dove si sviluppa e giunge a maturazione.

Durante l’addestramento, i cuccioli imparavano innanzitutto a mangiarlo: una sorta di iniziazione di ciò che poi avrebbero fatto per il resto della vita. Per evitare, però, che li addentassero subito dopo averli scavati, papà li barattava con gli “antenati” dei moderni croccantini, preparati dalla mamma con gli avanzi della nostra cucina.

Mio nonno di cani ne aveva cresciuti e addestrati uno o due, mio padre invece era arrivato ad averne sei, tutti meticci. A pochi mesi dalla nascita iniziava ad ammaestrarli: un vero spettacolo, a tratti comico a tratti tenero, a cui sempre assistevamo entusiaste noi ragazze sin da piccole.

Durante l’ammaestramento, i cuccioli si muovevano in un’atmosfera quasi circense; la corsa sbilenca, all’inseguimento della scaglia di tartufo che papà lanciava a una certa distanza, era tutta da ridere: i piccoli non sempre controllavano la direzione, e soprattutto la frenata, che li portava il più delle volte ben oltre il punto di atterraggio del tartufo, finendo spesso col dare una sonora testata contro il muro del cortile.

Papà ci coinvolgeva nella cura dei cagnolini sin dalla loro nascita. Quando la mamma non aveva latte a sufficienza ci dovevamo pensare noi ad allattarli artificialmente. Sceglievamo il piccolo a cui dedicarci e portavamo avanti la nostra missione fino a che non arrivava allo svezzamento. Per tutta la loro vita li consideravamo un po’ anche figli nostri. Papà ci reggeva il gioco, sostenendo che in alcuni comportamenti ci somigliassero. Noi gli davamo credito e gongolavamo d’orgoglio quando affermava che, anche grazie a noi, erano diventati dei provetti cani da tartufo.

Quando tutto l’affettato era pronto nella zuppiera, si aggiungevano gli altri ingredienti e il condimento. Sulla tavola compariva una ciotola dove la mamma aveva messo in ammollo, in acqua fredda, le papaccelle: peperoni rossi tondi, che coltivavamo nel nostro giardino.

Eliminato l’eccesso di aceto rosso, dal gusto forte, fatto in casa, in cui restavano anche per un anno, le tagliavamo a quadratini.

Il colore rosso fuoco, e la consistenza callosa, mi facevano dimenticare ogni prudenza: le assaggiavo ancora intrise di aceto. La lingua si gonfiava all’istante e prendeva fuoco. Il primo bicchiere di acqua che riuscivo a recuperare spegneva un po’ di quell’incendio, ma le papille gustative restavano anestetizzate per diverse ore.

«Ben ti sta! Quante volte devo dirti che non devi assaggiarle, prima di tirarle fuori dall’acqua? Ora non lamentarti se non assaporerai più nulla!» la voce di mia madre, diventata anche la voce della mia coscienza, che prendevo in prestito da lei o da papà a seconda dei casi, mi ammoniva per l’errore commesso. Sapevo però che lo avrei rifatto, forse già la volta successiva, perché il desiderio un po’ masochistico di sfidare me stessa in tutto ciò che mi era proibito, era più forte della paura. La scarica di adrenalina, che mi spingeva ad andare fino in fondo, compensava in anticipo lo scotto che inevitabilmente avrei pagato.

Questo mio tratto caratteriale, riconoscibile in molte altre azioni intraprese negli anni, rappresenta sì una maledizione ma anche una grazia, che mi ha portata spesso oltre quelli che sarebbero rimasti miei limiti.

Negli anni noi sorelle ci siamo diversificate caratterialmente sempre di più, esasperando i tratti salienti. L’affetto che ci ha sempre unito non ha però permesso che ci allontanassimo troppo, nonostante la mia vita avventurosa, che era agli antipodi della sua continua ricerca di sicurezza.

Lei, infatti, da giovanissima ha trovato rifugio nel matrimonio, e mentre io giravo mezzo mondo affrontando mille sfide, perdendone quasi altrettante, come una formichina ha accantonato riserve per un futuro sereno.

Ancora oggi non mi spiego come potessimo essere tanto diverse: avevamo pochi anni di differenza, eravamo cresciute ed eravamo state educate dagli stessi genitori. Dipendeva da qualcosa di innato, o da una certa elasticità dei miei, ormai alla loro seconda esperienza di genitori, che li aveva spinti a mollare i freni, lasciandomi semplicemente più libera di agire?

Mio padre, più di mia madre, credo si riconoscesse in me, nella mia ricerca continua di indipendenza.

Lui aveva affermato la sua, rifiutando di succedere a mio nonno come dirigente forestale, allora un diritto “ereditario”. In montagna, circondato dai suoi cani, si sentiva davvero libero. E poco importava se quel lavoro, oltre a essere molto faticoso, poteva in alcune situazioni diventare pericoloso.

Insieme alle papaccelle, anche le alici sotto sale avevano bisogno di essere lavate per poi finire nell’insalata. Capire se fossero dissalate al punto giusto era una vera impresa: risultavano ancora troppo salate, o ormai sciape e non più utilizzabili. Quando imparammo a liberarle dall’eccesso di sale, mamma lo lasciò sempre fare a noi.

Le olive che aggiungevamo con generosità, erano le stesse da cui ricavavamo l’olio, di colore verde e dal gusto intenso. Il nostro era un olio dal colore torbido e che pizzicava la lingua, ma nonostante tutto si sposava bene con gli ingredienti dell’insalata di tartufo.

Quando ci ritrovammo, quasi a sorpresa, nei mitici anni Sessanta, in particolare nel ’68, eravamo ormai liceali: io al primo anno, mia sorella al quarto. A quel tempo avevamo ormai imparato come preparare una buona insalata di tartufo nero e, benché ci sentissimo pronte a far parte di una gioventù impegnata a cambiare il mondo, seguitavamo a dare il nostro contributo in casa con i cani e la vendita dei tartufi.

Fu l’anno successivo, nel ’69, che toccò a noi, all’Italia intera, partecipare attivamente alle grandi trasformazioni di quell’epoca, a quella che fu una vera e propria rivoluzione culturale.

Ricordo che divenne naturale per noi pensare in grande, facendo progetti per il futuro in quel mondo che si preparava ad avere nuove priorità; ancora adesso credo che sia stata “l’ultima Era delle Possibilità”.

Ciò che accadeva a ogni latitudine del globo, e la sua colonna sonora, ci raggiungevano attraverso la televisione e il passaparola di amici che si informavano da parenti residenti in America, Francia o Inghilterra.

Anche le nostre letture, grazie all’ottima biblioteca del paese, ebbero una evoluzione: passammo dai classici italiani e stranieri ai testi contemporanei.

Fernanda Pivano, ambasciatrice di molti scrittori americani esordienti, importava, traduceva e promuoveva le loro opere.

Lo aveva già fatto con l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, e proseguì con gli scrittori della Beat Generation: leggemmo così Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti.

A noi, più che una rivelazione, l’America di quegli scrittori sembrò una promessa di vita.

E mentre quel vortice di cambiamenti ci inghiottiva, mamma e papà ci assegnavano compiti un po’ più gravosi nella cura dei cani.

Durante l’estate li trasferivamo in una nostra casa di campagna, semi abbandonata e con un’ampia recinzione che li lasciava liberi di scorrazzare nel verde. La maggior parte delle volte toccava a noi sorelle portargli da mangiare. La strada, lunga e sterrata, non comportava particolari pericoli; mia sorella, però, aveva il terrore dei serpenti, e questo era un problema: non so se fosse incoscienza, la mia, oppure il solito impulso a sfidare il pericolo, in ogni caso attraversavo per prima i tratti erbosi per farli eventualmente scappare. Subito dopo di me, lei li percorreva di corsa e cantando a squarciagola.

Credo che quella mia forza d’animo venisse fuori da un istinto ancestrale, che mi portavo dentro fin dalla nascita. Sebbene non mi inorgoglisse particolarmente, capivo però che quella sarebbe stata per sempre la mia cifra. Non mi sorprendeva dunque che le divisioni dei compiti fossero inique: se bisognava sfoderare un minimo di coraggio, allora quel compito toccava a me.

Aggiungo ancora troppo olio nell’insalata di tartufo. I consigli, come i rimproveri, di mamma non sono mai riusciti a frenare in tempo la mia mano. A dirla tutta, lo faccio con ogni tipo di insalata, ma quella di tartufo mi inganna più delle altre. Sembra sempre che non ci sia abbastanza olio, anche se, dopo che ha riposato per qualche ora, trasuda nuovamente – come per dispetto.

Arricchito dal sapore di ciascuno degli ingredienti, è però così buono che inzupparci il pane è una vera delizia.

Anche il sale dà l’impressione di non essere mai abbastanza, per una equilibrata sapidità del piatto, ma da questo non mi lascio più ingannare, soprattutto dopo aver sperimentato che un’insalata diventa immangiabile, se ne aggiungiamo troppo.

Verso la fine degli anni Sessanta, noi sorelle avevamo anche il compito di portare il cavato del giorno al signore che faceva da tramite con il Mercato Generale del Tartufo di Alba, e alcune industrie del centro-nord che lo trasformavano.  Per raggiungerlo dovevamo attraversare buona parte del paese con un cestino che, benché chiuso, rivelava il suo contenuto per l’odore forte che sprigionava, e poi era facile identificarci come le figlie di uno dei pochi tartufai dell’epoca.

Era un supplizio attraversare la piazza principale del paese, dove tutti gli occhi erano puntati addosso a noi: il peso dei tartufi si moltiplicava all’istante e la camminata diventava incerta, rischiavamo di inciampare. A qualche metro dalla piazza tentavamo sempre di mollare il cestino all’altra. Tutto si risolse quando decidemmo di alternarci, ma i festivi e le domeniche restarono un problema: in quei giorni la piazza era molto più affollata e anche gli sguardi si moltiplicavano, alla pari del nostro disagio. Per minimizzare l’impatto visivo del mio passaggio, spostavo il cestino di lato e in basso, rendendolo meno distinguibile. Aumentavo il passo, e rossa in viso fendevo la piccola folla, senza mai alzare lo sguardo.

Quella traversata, negli anni, mi pesò sempre meno, anche se non mi abituai mai davvero. Continuai a farla senza protestare.

Una volta pronta, l’insalata deve riposare per qualche ora, ma non in frigo, che diventa invece indispensabile se la si vuole conservare per qualche giorno.

La mia mamma chiudeva la zuppiera nella credenza, per lasciare che il contenuto insaporisse, e per tenerla lontano dagli assaggi furtivi che noi sorelle non mancavamo di fare. Per questo, la metteva sul ripiano più alto.

Quella precauzione, però, non bastava, e se da sola ero capace di arrampicarmi, insieme a mia sorella diventava un gioco. Che io ricordi, era una delle poche marachelle che facevamo insieme e, mentre io facevo da palo, lei trafugava un assaggino per entrambe, cercando di non lasciarne traccia.

Se il sapore dell’insalata non è più quello di quando ero bambina, è da addebitare agli ingredienti minori, che hanno trattenuto solo ricordi marginali, mentre il tartufo ne porta l’intero fardello. Il suo odore, unito indissolubilmente al suo inconfondibile sapore, ha la capacità di scavare nella mia memoria, tirando fuori immagini di un polveroso color seppia, rimaste sepolte negli anfratti remoti della mia mente per più di mezzo secolo

A volte è una nevicata a sollecitare quei ricordi. E allora, bambina, mi ritrovo davanti casa: ha smesso da poco di nevicare e fa freddo. Mio padre è appena tornato dalla montagna, ha aperto il portellone del fuoristrada per lasciar scendere i cani. Si scatena la solita ressa a chi scende per primo, per poi farmi le feste, mentre il mio papà, stanco e infreddolito, con aria sorniona tira fuori il bottino del giorno: ben diciotto chilogrammi di tartufo!

Il prossimo Natale lo passerò da mia sorella. Toccherà a me preparare l’insalata della tradizione e lei, quando l’assaggerà, non mancherà di dirmi, con aria fintamente rassegnata:

«Non ti toglierai mai il vizio di aggiungere troppo olio, nemmeno se diventasse raro come l’oro.»

Io le sorriderò, mentre immagino nostra madre che la fulmina con lo sguardo. E poi papà che, dopo qualche boccone, esclama soddisfatto: «Buona! Questa è la migliore insalata di tartufo che abbia mai mangiato.»